La terapia familiare nasce negli anni ’50 in America sul tronco vigoroso della psicoterapia psicoanalitica relazionale. In breve e molto schematicamente il discorso di Freud era stato rielaborato già in precedenza da H.S. Sullivan all’interno di una teoria e di una pratica che mettevano l’accento sulla interdipendenza dei comportamenti umani e sulla necessità di lavorare a livello del contesto interpersonale di appartenenza per ottenere modificazioni significative di tali comportamenti.
E’ proprio riportando le difficoltà di colui che sta male al qui ed ora della relazione in corso con i membri della sua famiglia e, più in genere, con i personaggi più significativi del suo universo personale, i terapeuti familiari hanno continuato a centrare la loro attenzione sulle leggi che regolano il funzionamento dei sistemi umani in cui si determinano o si aggravano, stabilizzandosi, difficoltà di interesse psicopatologico. Cruciale da questo punto di vista, nella loro pratica di lavoro è stata la pragmatica della comunicazione intesa come studio degli effetti prodotti dalla comunicazione su colui che la riceve; la presenza di un comportamento di interesse psicopatologico corrisponde regolarmente, infatti, ad un blocco comunicativo ed alla conseguente rigidità omeostatica del sistema famigliare, ad un blocco della sua crescita e delle sue potenzialità, ad una perdita più o meno importante di libertà che riguarda tutti i suoi membri. Integrando profondamente in questo modo il discorso psicoterapeutico più tradizionale di chi, come gli psicoanalisti, si sono occupati soprattutto del significato da attribuire alla medesima comunicazione (semantica della comunicazione) sulla base di un lavoro centrato sulla esperienza del singolo. Proponendo i due discorsi, dopo le inevitabili incomprensioni del primo periodo, come due discorsi complementari e in grado di arricchirsi reciprocamente: quella che è stata sviluppata nel Centro è una pratica di lavoro e di insegnamento in cui gli allievi del corso di terapia familiare vengono formati a cercare una integrazione utile di due discorsi considerati a lungo come opposti e fondamentali tutti e due, invece, per una corretta impostazione del lavoro terapeutico. Come è particolarmente evidente nel campo complesso della formazione e della supervisione; l’importanza di un lavoro che tiene conto della dimensione personale del terapeuta appare ogni giorno più evidente, infatti, ai sistemici che lo avevano inizialmente messo fra parentesi al modo stesso in cui la dimensione sistemica dell’interazione che si stabilisce fra il terapeuta, il paziente designato e la sua famiglia o, in un’altra sede, fra terapeuta, supervisore e gruppi o contesto di supervisione appare sempre più chiara agli psicoanalisti più tradizionali.
Si può concludere su questo punto proponendo l’idea per cui la tradizione scientifica dei moderni terapeuti familiari fa riferimento prima di tutto alla lezione di Freud sul dinamismo psichico sottostante al manifestarsi del sintomo e, successivamente, alla riflessione sistemica sulla interdipendenza dei comportamenti. Caratteristicamente interdisciplinare nella presentazione delle sue giustificazioni teoriche, essa rappresenta in effetti una riformulazione moderna e complessa delle ricerche più importanti condotte, nel corso del secolo, sulle origini, sul significato e sugli effetti della comunicazione fra gli esseri umani da una parte; sulle possibilità di intervenire modificando dall’altra.
Basata su queste premesse, la formazione del terapeuta familiare e sistemico, si propone come un processo di estrema difficoltà e complessità le cui finalità esplicite corrispondono, prima di tutto, alla maturazione personale dell’allievo che deve mettersi in grado di conoscere i modi, consapevoli e non consapevoli, con cui influenza, interagendo con loro, i comportamenti di chi chiede il suo aiuto; entrando in contatto necessariamente, per questa via, con la complessità del suo apparato psichico, con le modalità del suo funzionamento, con i meccanismi di difesa cui lui stesso affida il suo equilibrio, con le esperienze che giustificano questo tipo di organizzazione personale. Diventa utile solo all’interno di un processo di questo tipo la acquisizione di tecniche che lo mettono in grado di formulare ipotesi sul dinamismo specifico della famiglia elaborando strategie di interventi capaci di sbloccare le relazioni interpersonali rigide variamente collegate allo sviluppo di una situazione di difficoltà di interesse psicopatologico.
Una caratteristica comune a tutti i sistemi umani complessi è infatti quella di “catturare” la percezione, il giudizio e il comportamento comunicativo di chi con essi interagisce: riattivando, più o meno rapidamente i suoi tentativi di introdurre elementi di novità e di cambiamento.
Il programma formativo che si è delineato all’ombra di tali esigenze nel corso di due decenni raccoglie esperienze venute da molti altri terapeuti e ricercatori e costituisce un contributo originale dei didatti del Centro Studi di Terapia Familiare e Relazionale. Organizzato su quattro o cinque anni di lavoro, esso propone un rinvio continuo fra l’esperienza vissuta del candidato e la elaborazione teorica del suo significato: collocando tale esperienza dapprima (primo anno) sul contesto del piccolo gruppo e successivamente (gli altri tre anni) in quello di una serie di terapie protette che si svolgono dapprima (2° e 3° anno) con il supervisore dietro lo specchio e successivamente sul racconto (la supervisione indiretta) di terapie portare avanti dall’allievo da solo.